C’era una volta Anita.
Anita amava il gelato, amava camminare scalza sul prato, amava scoppiare le bolle di sapone con la punta del naso, amava il Natale ma se c’era una cosa che Anita amava più di tutte era passeggiare con Ettore.
Ettore non era un amico qualunque: capiva sempre se Anita era triste, se aveva voglia di giocare o se voleva compagnia, ed Ettore era un amico speciale anche per un altro motivo, cioè che aveva quattro zampe e una coda buffissima, arricciata, come quella di un maialino, tutto ricoperto da pelo corto e rosso come il fuoco. Il cane più buffo che si sia mai visto. Ettore amava le carezze, amava dormire sul divano, amava abbaiare ai gatti per sentirsi cattivo ma se c’era una cosa che Ettore amava più di tutte era passeggiare con Anita.
E questo faceva di loro due amici inseparabili.
Anita tutti i giorni prendeva il guinzaglio di Ettore, che si metteva subito seduto con il petto fuori, tutto fiero e felice, lo faceva passare intorno alle zampe e al collo e si incamminava allegra, lungo le strade tranquille del suo paese. La passeggiata seguiva sempre il solito tragitto: lì in fondo alla strada c’era la gelateria, proseguendo a destra c’era un piccolo parco dove Ettore poteva fare amicizia e dove Anita spesso si toglieva le scarpe (ma guai se la mamma lo veniva a sapere), andando avanti c’era il signor Luigi che faceva bolle di sapone grosse quanto palloni da calcio, e alla fine, stanchi e felici, tornavano indietro, lungo lo stesso percorso.
Ma un giorno, mentre stavano tornando a casa, successe qualcosa che Anita non aveva previsto. L’imprevisto aveva la forma di un bel gatto, un enorme gatto bianco dagli occhi gialli. Ettore, che odiava i gatti almeno quanto amava le carezze, iniziò subito ad abbaiare “Allontanati brutto fetente!”, ma il gatto, che odiava i cani almeno quanto amava le carezze, rispose con un soffio acuto. Anita, sconsolata dall’entusiasmo del suo amico, sospirò e decise di cambiare tragitto per quella volta, proseguendo da un’altra parte, e vide una piccolissima strada che non aveva mai notato prima. Guardò il suo amico a quattro zampe, lui guardò lei e si incamminarono fianco a fianco.
La strada inizialmente sembrava una strada proprio come tante altre ma arrivati circa a metà Anita ed Ettore si resero conto che qualcosa non andava, la via sembrata abbandonata: c’era una villa con le persiane chiuse da assi di legno, dall’altra parte c’era una casa ricoperta di edera, poco più in là un edificio aveva le scale crollate, una vecchia scuola era senza tetto e si riusciva a intravedere dai vetri sporchi i banchi messi sempre in fila, con la lavagna appesa al muro. Ma di tutte queste cose strane quella che attirò di più l’attenzione di Anita era una piccola casa, quasi una baracca, nel cui giardino c’erano moltissime teste. Non teste vere, si intende, teste di ceramica, di vetro, di marmo, di legno, tutte disposte in fila, in bella vista sul muro e nel prato.
Anita pensò che quelle dovevano essere le teste dei vecchi abitanti di quella assurda strada che sicuramente qualcuno aveva trasformato in statue. Dopo un primo momento di terrore riprese fiato e avrebbe voluto fuggire, urlare e correre veloce verso casa ma non ci riuscì, le gambe si sbloccarono e rimase immobile, come pietrificata e pensò che quello fosse l’inizio di un qualche sortilegio che lentamente la stava trasformando. Cercò di guardare Ettore ma la testa era come bloccata e l’unica cosa che riuscì a dire fu “aiuto”. Quella parola magica doveva aver infranto il sortilegio perché improvvisamente le gambe uscirono dal loro torpore, strinse forse il collare di Ettore e scappò come un fulmine, insieme al suo amico, entrambi a perdifiato, verso casa.
La mattina dopo Anita si svegliò, e inizialmente pensò che quello che era successo il giorno prima non era altro che un brutto sogno. Poi ripensò alle teste di ceramica sul prato, alla paura, alla sensazione di non riuscire a muoversi, alla parola magica e al momento in cui finalmente era arrivata a casa.
Ora, se c’è una cosa che non vi ho detto di Anita è che Anita è la bambina più curiosa che io conosca. E una bambina curiosa come Anita non poteva far finta di niente. E poi tutte quelle persone? Qualcuno avrebbe dovuto salvarle.
Prese il guinzaglio, legò Ettore e uscì nuovamente di casa perché lei doveva capire. Trovò la stradina abbandonata, superò la villa chiusa, la casa con l’edera, il palazzo con le scale rotte e la scuola senza tetto, fece un profondo respiro e si avvicinò alla baracca. Dietro la siepe, seduto su una sedia di legno, vi era un uomo. Lui doveva essere colui che trasformava le persone in statue! Chino su un blocco di terra, con un utensile, dava lentamente forma a dei bellissimi capelli che incorniciavano un volto dolcissimo. Il naso era appena abbozzato, sottile e piccolo, e le labbra carnose erano stese in un eterno sorriso. La bambina rimase incantata dai gesti lenti e dalla maestria con cui quei movimenti toglievano la terra e nasceva la statua di una donna sorridente. Anita strinse il guinzaglio di Ettore e lentamente si incamminò verso casa.
Aveva appena deciso che sarebbe diventata anche lei un’artista. A quelle teste in fondo serviva proprio un corpo.