C’erano una volta un gatto sghembo, un gallo stonato, un pavone timido e un gufo che dormiva sempre sia di giorno sia di notte. Questi simpatici animali vivevano tutti insieme in una fattoria abbandonata e le loro giornate andavano avanti tra lamenti e gare a chi fosse più sfortunato. “Ho una gamba tutta storta e non riesco a camminare dritto”, iniziava il gatto sghembo. “Vogliamo parlare del mio canto?! Dovrei essere il miglior cantante della fattoria e invece sono terribile”, rispondeva il gallo stonato “A-al-almeno t-tu non ba-bal-balbetti”, replicò il pavone timido. E poi silenzio. Infatti il gufo stava già sbadigliando ed era più addormentato che sveglio.
Insomma, i nostri amici passavano tutti tutti tutti i giorni a mettere a confronto le loro sventure. Nonostante quanto si possa pensare andavano molto d’accordo tra di loro e insieme si facevano delle grosse risate.
Inaspettatamente un giorno di pioggia si presentò all’ingresso della fattoria un barboncino che si era perso e aveva bisogno di indicazioni per tornare a casa dal suo padroncino. Ma il temporale era così forte che gli animali gli sconsigliarono di rimettersi subito in viaggio. “Forse ti conviene aspettare che torni fuori il sole”, suggerì il gatto. “I-io la pe-penso esa-esatta-esattamente come Sghembo”, aggiunse il pavone. Il cagnolino accolse i suggerimenti e decise di rimanere nella fattoria fino a quando il tempo non fosse migliorato.
Ma il barboncino era perfetto e non aveva niente di cui lamentarsi, infatti il suo pelo era lucido e ben pettinato, non abbaiava mai, si riposava solo il necessario e portava dei deliziosi fiocchetti alle orecchie. Il cane, vedendo i difetti dei suoi ospiti, iniziò a farglieli notare. “Gatto ma non vedi che la tua zampa è storta?” “E tu gallo? Se non riesci a essere intonato non cantare proprio.” “Pavone sei così bello, perché non ti metti in mostra e fai vedere a tutti la tua coda colorata?” “Lo sapevi che i gufi di solito dormono solamente il giorno?”
Gli animali rimasero perplessi: loro infatti non erano abituati al fatto che qualcun altro li facesse notare i difetti. Così il gallo smise di cantare, il gatto si sforzò di camminare dritto, il gufo fece di tutto per rimanere sveglio (almeno la notte) e il pavone iniziò a ruotare goffamente con la sua splendida coda aperta. Ma in quei giorni di pioggia nessuno fu più se stesso, non sapevano di cosa parlare e le giornate erano tutte monotone e uguali.
Dopo tre noiosissimi giorni, una mattina di sole il gallo si svegliò soprappensiero e cantò male, malissimo, ma così male che tutti gli altri si svegliarono e non poterono fare a meno di scoppiare a ridere. L’unico che non rideva era il gufo che ormai già da qualche ora dormiva profondamente. Il gatto sghembo rise così forte che si dimenticò di camminare dritto e cascò sonoramente per terra, facendo ridere ancora di più tutti gli altri. Alla fine fu il pavone che, visto che era una bella giornata, disse al barboncino balbettando “Fo-for-forse po-potresti ri-rimetterti in via-viaggio”.
Rossa, fiammante, velocissima, con un grosso cestino per lo zaino. Questo era il regalo che Tommy aveva ricevuto dai nonni per il suo compleanno e ogni qualvolta il tempo lo permetteva, usava la sua nuova bicicletta per andare a scuola. Tutti lo invidiavano quando arrivava come un scheggia sul suo sellino, gli occhi dei suoi compagni erano puntati su quel gioiello fiammante che luccicava alla luce del sole. Pure Alfredo, quel bambino antipatico di quinta, gli aveva chiesto dove l’avesse comprata. Tommy era fierissimo della sua nuova bicicletta e non permetteva mai a nessuno di usarla. “Ho paura che si rompa”, rispondeva sempre ai suoi amici e i suoi amici non glielo chiesero più.
Una mattina fresca di metà ottobre, Tommy si alzò in ritardo come al solito, si vestì di corsa, mise il giacchetto più pesante, baciò la mamma sulla guancia e uscì in giardino per prendere la bicicletta che teneva legata a un palo. Ma qualcosa era diverso dal solito. Una spessa striscia argentea imperlava il sellino da parte a parte e al suo termine una grossa lumaca si trascinava stancamente andando chissà dove. “Ma che cosa strana!”- pensò Tommy- “Una lumaca su una bicicletta. Ma cosa pensa di fare? Le lumache sono lente e silenziose. Sarà meglio farla scendere visto che io vado velocissimo. Il suo posto non è di certo qui sopra. Per colpa sua arriverò tardi in classe e la maestra si arrabbierà moltissimo con me.” Tommy allora prese delicatamente la lumaca per il guscio, la mise sull’erba e in tutta fretta pedalò verso la scuola.
Quello che Tommy non sapeva è che la lumaca non si era mai spinta al di là del delimitare del prato. Quindi lei ignorava che sul marciapiede davanti casa camminavano in fila le formiche, che sull’albero della vicina ci fosse un nido di api, che un pettirosso in fondo alla strada amava cantare alle 5 di pomeriggio. Le altre lumache erano felici lo stesso, in quel giardino crescevano in abbondanza denti di leone e altre foglie gustosissime, a loro non mancava niente. Ma alla nostra lumaca questa cosa proprio non andava bene. Lei aveva deciso che voleva scoprire il mondo e non si sarebbe arresa così facilmente.
Così la mattina dopo, con molta fatica, si fece trovare in orario sopra il sellino della bicicletta fiammante di Tommy. “Eh no- pensò lui seccato- questa ci sta facendo l’abitudine.” La riprese per il guscio, la osservò fissando le sue antennine sopra la testa e le disse “Come faccio a farti capire che se caschi ti fai male? Qui non devi salire!”. E la rimise al suo posto nel prato. Ma la lumaca, testarda com’era, non avrebbe rinunciato al suo sogno e la mattina seguente, con molta fatica, si fece trovare nuovamente in orario sopra il sellino della bicicletta. Tommy quando la vide non credette ai suoi occhi. Forse, per lo spavento, avrebbe capito che quello non era di certo un posto dove poteva stare una lumaca. Rifletté un attimo su cosa fare, la spostò sul manubrio e partì a tutta velocità verso la scuola.
Quando Tommy iniziò ad andare così veloce la lumaca per un secondo ebbe paura, poi si attaccò bene al metallo e si fece coraggio. Durante il viaggio si divertì da morire. Non si era mai sentita così libera. Osservò con cura le foglie che iniziavano a cascare, sentì l’odore intenso della resina dei pini, vide volti e case e montagne che non aveva mai visto prima. Tutto era nuovo, sconosciuto e a lei sembrava di essere rinata. Quanto Tommy legò la bicicletta davanti a scuola si sorprese di vedere la lumaca ancora attaccata al suo posto ma si sorprese ancora di più quando al suo ritorno la notò lì, dove l’aveva lasciata, che lo stava aspettando.
Lungo la strada del ritorno la lumaca si sentì in dovere di sdebitarsi con quel bambino che gli aveva fatto vivere dei momenti così magici. Allora iniziò a raccontargli dei fili d’erba bagnati di rugiada, dei petali morbidi delle margherite e del solletico che il vento le faceva mentre era sopra la bicicletta. Tommy a quel punto rallentò (c’erano davvero tutte quelle cose?) e iniziò a osservare con attenzione quello che la lumaca gli diceva, andando lentamente per non perdersi nemmeno un dettaglio di quel mondo così piccolo ma non per questo meno bello.
Posso dirti, caro lettore, che divennero grandi amici. La mattina presto la lumaca era già pronta sul sellino della bicicletta, elettrizzata per il viaggio che l’aspettava. Tommy andava come una scheggia per non arrivare in ritardo e la sua amica non riusciva a smettere di ridere per il solletico che le faceva il vento. Al ritorno andavano piano, pianissimo, e spesso si fermavano a guardare i nidi dei merli o le antenne di qualche grillo che si domandava sbigottito che cosa ci facessero insieme quei due.
Nella casa del signor Antonio abitavano lui e la moglie, ma avevano anche un ospite alquanto discreto, Oscar il ragno. Oscar se ne stava sempre per i fatti suoi, costruiva pazientemente la sua ragnatela dietro il mobile grande della sala e non dava noia a nessuno. Insomma, era un ragno di tutto il rispetto, serio e cortese. L’estate aspettava le zanzare, l’inverno attendeva qualche mosca, tirava a campare.
Un giorno però la moglie dei signor Antonio aveva deciso di fare le pulizie in sala, distruggendo la casa di Oscar che in tutta fretta aveva raccolto bagagli e valigie e si era diretto verso la cucina. Con pazienza si era trovato un piccolo posto dietro il tavolo e aveva iniziato a tessere una nuova tela quando, eccola di nuovo!, la moglie del signor Antonio armata di aspirapolvere. Oscar si diede di nuovo a zampe levate, fuggendo di corsa in bagno, rifugiandosi in un anfratto del lavandino. Ma la moglie del signore doveva aspettare ospiti perché dopo un’ora entrò con in mano gli stracci per pulire.
“Eh no, adesso basta!” pensò Oscar “vado dal signor Antonio a cantargliene otto!”. Oscar era un gentilragno, non aveva mai perso la pazienza, ma adesso gli sembrava davvero troppo. Si spostò in sala dove si trovava il signore, si schiarì la voce e prese la parola. -Mi scusi, non vorrei disturbarla ma dovrei parlarle. Per poco Antonio non si sentì male sentendo quella voce così strana e si girò intorno alla ricerca della fonte fino a quando non guardò in basso e vide un ragno proprio davanti a lui, che lo fissava con tutti i mille mila occhi. -S…sei un ragno? E parli? -Certo! E conviviamo sotto lo stesso tetto da ormai due anni signore. -Io devo avere la febbre alta e le allucinazioni… -Mi stia a sentire. Le vorrei comunicare il mio disagio dato dal comportamento della sua signora che senza ritegno distrugge la mia umile dimora. Mi sono dovuto trasferire per ben due volte e la pregherei di prestare più attenzione in virtù della nostra precedente serena convivenza. Antonio per poco non svenne. -E….e….cos….cosa dovrei fare? -Beh, portare un poco di rispetto anche a me. Cosa ne direbbe se qualcuno le distruggesse la casa ogni volta? O se a un insegnante togliessero la scuola? O se a un cuoco togliessero il ristorante? Le pare? Cosa fareste per vivere? Anch’io devo campare in qualche maniera. Dovrebbe pregare la sua amata moglie di lasciarmi un poco di spazio per la mia dimora, senza essere disturbato dalle pulizie. Lo farà? -I…io…credo di sì. -Grazie e arrivederci.
Oscar per un momento pensò di trasferirsi in cantina ma alla fine decise di spostarsi in giardino, era meglio evitare quegli umani così maleducati.
In una terra vicino al mar Tirreno era cresciuta una quercia da sughero che col passare del tempo era diventata grande, forte e saggia. Nella sua lunga vita aveva visto tante cose e se le ricordava tutte: giorni di sole caldo, fredde notti d’ inverno, navi nel mare in tempesta e barchette che dondolavano in acque calme. Aveva visto la guerra con i suoi morti e la sua paura, ma anche giovani promesse d’amore e bimbi con la faccia sporca di cioccolato e marmellata. Ormai era vecchia e un po’ stanca, ma le sue giornate erano rallegrate da Simonetta, una pecorina buffa e stramba che era diventata sua amica. Il pastore faceva pascolare il gregge nella grande pianura vicino al mare, ma Simonetta scappava al controllo del cane Agosto e si metteva a brucare lontano dagli altri, vicino alla quercia e chiacchierava tanto, tanto, tanto. Il vecchio albero si chiamava Arbor Vetus von Rubor, ma era un nome troppo difficile per la pecora che lo chiamava solo “Pianta”. Appena Agosto inseguiva qualche pecorella distratta, Simonetta trotterellava via fino a Pianta, mangiucchiava un po’ d’ erba, si strusciava al tronco e cominciava a raccontare la sua giornata. Poi verso sera cominciava con le sue buffe domande: “Che cosa vedi da lassù, Pianta?”, “ Ha un colore il vento?”, “Le onde del mare…le puoi toccare coi tuoi rami?”, “Quando gli uccellini fanno troppo chiasso, li butti nel mare?”, “Le ghiande sono le tue lacrime o le tue risate?”. La quercia si divertiva e ridendo, mentre rispondeva, scrollava i suoi rami; la pecorina era contenta e si sentiva sicura e “speciale” accanto alla sua saggia amica. Poi Agosto abbaiava forte forte e Simonetta sapeva che doveva rientrare veloce più del vento che soffiava dal mare.
Ma l’ amicizia di Pianta e Simonetta doveva fare i conti con il pastore e il boscaiolo. Le pecore avevano messo su troppo pelo e il pastore decise di portarle a tosare: Simonetta provò a scappare, ma niente! Quella stessa notte c’ era stato un vento fortissimo e potente che aveva abbattuto molti alberi; la nostra quercia cercò di resistere, ma era troppo vecchia e niente! Si piegò e lasciò che il vento ululasse cattivo tra i suoi rami. Il boscaiolo, quando vide la quercia a terra, tagliò la sua legna e la portò a vendere.
Oreste aveva sei anni, viveva con la sua famiglia nella terra vicino al mar Tirreno. Era da poco passato a casa sua Babbo Natale che, tra gli altri doni, gli aveva portato un maglioncino caldo e morbido…per le feste importanti. Qualche tempo prima aveva visto le pecore senza pelo e si era messo a ridere: erano proprio buffe, sembravano spogliate, sgusciate come delle nocciole! La mamma gli aveva detto che le pecore fanno la lana, ma a Oreste non importava molto della lana e non ci fece più caso.
Un giorno, mentre giocava, il babbo e la mamma gli dissero che ormai era un ometto che poteva restare sveglio fino a mezzanotte ad aspettare l’anno nuovo. Oreste chiese come avrebbe fatto a riconoscerlo l’anno nuovo: se era un uomo, un bambino o cos’altro; i suoi genitori gli dissero che era invisibile, ma l’avrebbe riconosciuto dal botto di un tappo di una bottiglia speciale. Oreste era emozionato e anche un po’ spaventato: “ Ma sarà tipo Babbo Natale o la Befana?” “ Perché mi tengono sveglio e col maglioncino bello e nuovo?”. Gli occhi del bimbo cominciavano a frizzare per la stanchezza, ma questo botto non si sentiva ancora…poi il babbo prese la bottiglia e cominciò a contare e BUM!: un grosso tappo di sughero volò sul soffitto, rimbalzò , schizzò come impazzito contro la parete e alla fine: PAM! Si fermò sulla maglia di Oreste! Il bimbo sentì un brivido strano, come una magia. Il tappo, profumato di dolce, era rimasto attaccato al maglioncino: sembrava che non si volesse più staccare e che la lana lo tenesse stretto a sé. Oreste pensò che stessero abbracciati così per un incantesimo e non li volle separare. E un incantesimo c’ era stato per davvero: la lana della maglia era di Simonetta; il sughero del tappo era della quercia. Si erano riconosciuti subito e si erano stretti forte forte! Oreste non volle staccare il tappo “magico” dalla sua maglia: li mise in un cassetto con la lavanda e li lasciò insieme.
Oreste, ora, è un uomo adulto, ha lasciato la sua terra sul mar Tirreno, ma quando ci ritorna coi suoi figli per le vacanze, apre ancora quel cassetto con l’ incantesimo della sua infanzia e gli sembra di sentire un belato lontano e il vento del mare che passa tra i rami di un albero.
Alpino era un bellissimo paese sotto le montagne ed è proprio lì che abitava Annie, una simpatica bambina di 6 anni a cui piaceva un sacco vivere a stretto contatto con la natura. Nonostante la bellezza dei luoghi, vivere ad Alpino non era facile, non c’erano tutte le comodità della città e gli abitanti erano sempre meno.
Fu così che Annie si trovò il primo giorno di scuola in una classe di soli 8 bambini e lei era l’unica femmina. Come avrete sicuramente indovinato, Annie non era tipo da scoraggiarsi facilmente e nonostante i suoi compagni si comportassero come se lei non esistesse, imperterrita continuava ad andare a scuola sempre allegra e sorridente.
Era l’ultimo giorno della settimana e i bambini si stavano avviando all’uscita di scuola quando si accorsero che nel giardino stava succedendo qualcosa di strano: la bidella, brandendo in aria la sua scopa, cercava di convincere un grosso micio tigrato a scendere dall’albero sul quale si era rifugiato per scampare al cane che lo stava inseguendo.
I bambini assistevano divertiti a quello spettacolo e Bertie, che si vantava di sapere sempre tutto, tirata fuori di tasca una piccola fionda, prese a tirare sassi al povero gatto che sempre più spaventato si rifugiava sui rami più alti.
Annie pensava fermamente che la violenza non serviva a risolvere i problemi. Così, toltasi lo zaino che aveva sulle spalle e senza proferire parola, si arrampicò sull’albero. Si muoveva lentamente per non impaurire il gatto e dopo un paio di tentativi andati a vuoto finalmente riuscì ad afferrarlo e a portarlo in salvo. I compagni sotto di lei, rimasero dapprima senza parole, poi appena Annie rimise i piedi a terra con il gatto in braccio, si misero a batterle forte le mani e a farle i complimenti.
“Per essere una femmina sei davvero coraggiosa” le disse il suo compagno di banco che fino ad allora non le aveva rivolto mai una parola. Annie non capì il perché ma da allora i sui compagni facevano a gara per giocare con lei e di questo fu molto felice.